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Che cos'è la dipendenza affettiva e da cosa ha origine?

Parliamo di dipendenza ogni qual volta che c’è un uso compulsivo di una sostanza a dispetto della consapevolezza sulle conseguenze negative che questa possa produrre e facendo trovare la persona in una situazione di perdita del controllo volontario del comportamento.

Dal punto di vista della dipendenza possiamo trovare definizioni univoche e riferimenti all'interno del Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi mentali, meno semplice trovare una definizione univoca di dipendenza dal punto di vista affettivo.

Sebbene la dipendenza affettiva, per insufficienza di dati empirici, non rientri tra i disturbi mentali diagnosticati nel DSM-V, essa viene classificata tra le “New Addiction”, nuove dipendenze di tipo comportamentale, dipendenza senza sostanza.





Il gruppo di Reynaud (Reynaud, Karila, Blecha e Benyamina) nel 2010, partendo dalle analogie riscontrate con la dipendenza da sostanze stupefacenti, propone una definizione diagnostica della love addiction, basata su durata e frequenza del disturbo, e la definisce come un modello disadattivo o problematico della relazione d’amore che porta a deterioramento o angoscia clinicamente significativa.

È infatti questa angoscia di ricerca o respingimento che porta la persona alla fase di craving, presente in ogni tipo di dipendenza, ossia il desiderio improvviso e incontrollabile di assumere una sostanza psicoattiva, un alimento, o un qualunque altro stimolo che derivi dall’ambiente.



Riprendendo il concetto di individuo inteso come cellula (Zerbetto, Gestalt la teoria della consapevolezza, Xenia, 1998) la permeabilità o non permeabilità dell’ambiente e in questo caso dell’altro, si muove come una danza spontanea tra l’apertura dell’individuo agli stimoli esterni per il soddisfacimento dei propri bisogni, e la chiusura, o non permeabilità, per un ritorno a Sé. L’oscillazione tra questi due poli, in modo spontaneo e fluido, permette all’individuo di autoregolamentarsi.



È importante ricordare questo concetto, perché siamo tutti in gioco all’interno di questo continuum: vivere senza contatto con l’esterno, in pieno egotismo, non ci fa evolvere e non è sano verso la regolamentazione del Sé, inteso, in ottica gestaltica, come il dialogo al confine di contatto tra mondo interno e mondo esterno.

Senza il mondo esterno, non vi è dialogo. Dall’altra parte, una totale confluenza con il mondo esterno e quindi una permeabilità della propria cellula-individuo, fa venire meno il sentire quale sia il proprio bisogno e come soddisfarlo.

Eppure, queste due tendenze le sperimentiamo totalmente quando siamo in una fase di dipendenza affettiva.


La dipendenza affettiva è uno squilibrio relazionale che ha luogo quando la persona non riesce a integrare, prima di tutto dentro di sé, le dimensioni di indipendenza (massimo egotismo) e dipendenza (massima confluenza), collocandosi all'estremo di una di queste due polarità, spezzando il continuum di soluzioni relazionali e irrigidendosi in un solo tipo di risposta (Borgioni, 2015).

Quindi quando parliamo di dipendenza affettiva non intendiamo soltanto il quadro più classico dell'individuo che ha bisogno dell'altro e non può farne a meno, ma anche di quegli individui che non riescono a stare in relazione con altre persone se non che con se stesse.

Andremo ora a vedere quali sono i tratti di dipendenza affettiva e come si originano nella nostra infanzia.

 

La persona dipendente (dipendente o controdipendente) ha di solito una storia evolutiva contrassegnata dalla negazione di sé, inteso come il prezzo da pagare in cambio della possibilità di ricevere attenzione e considerazione da parte delle figure di riferimento. Rogers, già nel 1951, afferma nella teoria della personalità, che in una fase molto precoce di sviluppo, il dipendente affettivo ha


vissuto drammaticamente il conflitto tra considerazione positiva di sé da una parte e l’accettazione dei caregiver dall'altro.

Detto in parole più semplici l'individuo ha dovuto imparare molto presto ad attirare l'attenzione e l'interessamento dei genitori dovendo rinunciare a molti aspetti del proprio essere.

Non pensiamo solo a casi esemplari come, ad esempio, quelle famiglie in cui c'è un'evidente situazione clinica nella storia del dipendente affettivo, in cui si evince una relazione con madri depresse o padri problematici, ma anche a casi che hanno a che fare con microtraumi talvolta inconsapevoli che si sono verificati nell'infanzia; pensiamo per esempio ad una madre molto presa dal proprio lavoro e poco presente come figura di sostegno per il figlio, oppure a un padre incapace di mostrare la propria affettività nel momento del bisogno dei propri figli ecc.

La cosa importante non è l’evento o la gravita dell’evento in sé, ma come l'individuo, il bambino, nell'infanzia abbia percepito questa mancanza oppure, al contrario, abbia avvertito un'eccessiva presenza invalidante e castrante.

Il bambino non ha potuto sperimentare mai una completa gioia e un completo abbandono nelle cure e nelle tenerezze dei caregiver, non ha mai sviluppato la così detta base sicura (Miller, Teorie dello sviluppo psicologico, ed. il Mulino, 1983).

Possiamo quindi riconoscerci tutti in una possibile mancanza, originata nell'infanzia e più o meno oggi consapevole, che ha influito su quelli che sono i nostri schemi attuali di funzionamento relazionale.

La mancanza ha a che fare con tre elementi predominanti che possono essere in tutto o in parte stati presenti nell’infanzia:


- la presenza di figure genitoriali che, se pur presenti, non sono state costanti o il bambino non le ha avvertite come tali;

- l’attesa da parte del bambino che qualcuno si prendesse cura di lui;

- imparare a rimboccarsi le maniche precocemente, congelando la paura di solitudine e facendo a meno degli altri.


 

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